Il concorso apparente di norme disciplina l’eventualità, tutt’altro rara, in cui il medesimo fatto storico, pur rientrando astrattamente nel paradigma sanzionatorio di due o più fattispecie penali, è in realtà punibile alla stregua di una sola di esse[1].
Il fondamento giuridico dell’istituto risiede nell’art. 15 del Codice Penale, rubricato “Materia regolata da più leggi penali o da più disposizioni della medesima legge penale”, laddove è testualmente previsto che “quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito.”
Criterio ordinario di risoluzione della finzione conflittuale è, pertanto, il c.d. criterio di specialità: lex specialis derogat generali.
Ma non è l’unico.
Ricorrono sovente casi in cui il legislatore, consapevole dell’altrimenti esuberante carico sanzionatorio cui il medesimo fatto sarebbe sottoposto, pone espressamente le diverse fattispecie tipiche in rapporto di “sussidiarietà”, regolato dal diverso grado di offesa cui viene sottoposto il bene giuridico tutelato.
In altre parole, esistono particolari ipotesi incriminatrici che contengono al loro interno, solitamente in premessa, una c.d. “clausola di riserva”.
La tecnica legislativa che accompagna le dette fattispecie si sostanzia nell’anteporre alla descrizione del fatto punibile locuzioni come “salvo che il fatto costituisca più grave reato”, “salva l’applicabilità della disposizione precedente” e così via[2].
La conseguenza, in termini di stretto diritto, dell’apposizione di simile clausole è presto detta: la norma che prevede l’offesa minore (norma sussidiaria) si applicherà solo e soltanto laddove quella che prevede un grado di offesa maggiore (norma primaria) non risulti, per qualunque ragione applicabile.
Orbene, fra le fattispecie c.d. sussidiarie, rientra pacificamente quella di rifiuto di sottoporsi agli accertamenti etilometrici (art. 186, co. 7, D.L.vo 30.04.1992 n. 285), che nel suo esordio reca, appunto, la classica dicitura “salvo che il fatto costituisca più grave reato”.
Il rifiuto di sottoporsi al c.d. “alcoltest”, in altri termini, assume rilevanza solamente nel caso in cui l’agente si limiti ad opporre il proprio dissenso, espresso o tacito, senza compiere ulteriori azioni che assumano disvalore sotto una diversa e più grave fattispecie, come, fra le altre, la resistenza a pubblico ufficiale di cui all’art. 337 c.p.
In caso contrario, proprio in applicazione della clausola di riserva ivi contenuta, risulterà applicabile soltanto la norma più severa, posta a tutela del medesimo bene giuridico.
Secondo alcuna giurisprudenza, al fine dell’operatività della clausola di riserva espressa, le fattispecie interessate debbono essere poste a tutela di beni giuridici omogenei[3].
Altri, ivi comprese le Sezioni Unite, hanno ritenuto non necessario detto requisito, arrivando a riconoscere rapporto di sussidiarietà fra fattispecie tra loro molto diverse[4].
In ogni caso, i reati hic d’interesse, ovvero la contravvenzione di rifiuto di sottoporsi all’accertamento etilometrico (altro rispetto alla guida in stato d’ebbrezza) e la resistenza a p.u., mirano alla tutela del medesimo bene giuridico, ovvero l’ordine pubblico e l’attività di chi lo persegue per istituto [5].
[1] V. su tutti, FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, pag. 679 e ss, Bologna, 2014.
[2] si pensi, a titolo meramente esemplificativo al reato di abuso d’ufficio, il quale è applicabile, per esplicita disposizione legislativa, soltanto ove non risultino applicabili altre fattispecie più gravi poste a tutela della P.A.
[3] V. Cass. Pen., Sez. II, 15.05.2015, n. 25363.
[4] V. Cass. Pen., Sez. Un., 27.02.2014, n. 25191; Cass. Pen., Sez. II, 19.12.2012 n. 843.
[5] V. Cass. Pen., Sez. Un., 25.02.2016, n. 13682.